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Latte

"Portrait of the Late Mrs. Partridge" (1947) -Leonara Carrington (1917-2011)
“Portrait of the Late Mrs. Partridge” (1947) -Leonara Carrington (1917-2011)

Sono partita per la Biennale d’arte di Venezia Il latte dei sogni con un’idea ben precisa: avrei analizzato una nuova parola, latte, e l’avrei legata alla Via Lattea e al mito greco sulla sua origine, ovvero le gocce fuoriuscite dal seno di Era, mentre allattava Eracle.
Latte è un sostantivo maschile la cui etimologia si ricollega alla radice “glu, gla, gal, gar” che indica onomatopeicamente il deglutire del neonato durante l’allattamento. Significa “liquido denso, bianco opaco, prodotto di secrezione delle ghiandole mammarie, alimento completo e indispensabile della prole dei mammiferi nel primo periodo di vita”.

Ma poi: latte è una parola femmina?

Questa domanda, tutta sbagliata, mi rimbalzava in testa mentre camminavo tra i padiglioni e i giardini.
Il titolo di questa edizione richiama il libro di favole di Leonora Carrington, in cui l’artista surrealista “descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé”. Leonora Carrington è stata un’artista magica. Anzi, una donna magica che ha avuto una vita talmente surreale e intensa che mi chiedo come sia possibile che Buz Luhrmann non ci abbia ancora fatto un film.

Cecilia Alemani invece è la direttrice della mostra.
Scrive nella presentazione che:
“L’esposizione Il latte dei sogni sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme ad altre figure delle trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso la metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano”.

Uno degli interrogativi che infatti la mostra affronta è: come sta cambiando la definizione di umano?

L’esposizione di quest’anno è incredibile, non solo i padiglioni dei diversi paesi, ma anche le opere esposte all’Arsenale dove si attraversa un susseguirsi di opere di avanguardia surrealista incantevoli.

Una mostra femmina, altra frase sbagliata che mi rimbombava dentro. Ma non a torto. In questa esposizione gli artisti uomini sono in minoranza e c’è una maggioranza di artiste donne e soggetti non binari.

E poi

Hamlet regia di A.Latella – Piccolo Teatro di Milano

Ho visto “Hamlet” di Antonio Latella al Piccolo Teatro di Milano.
In una maratona di 6 ore viene messo in scena tutto il testo della tragedia di Shakespeare.
Tutto in italiano tranne due parole: farewell, ripetuto quasi ossessivamente, e Hamlet.
La scelta di lasciare il nome di Hamlet senza tradurlo e quindi decidendo di non declinarlo al maschile o al femminile, mi è parsa giusta e accurata.
Non ce ne frega niente del genere di Hamlet; ho guardato e ascoltato l’attrice Federica Rosellini, e, per tutta l’opera non ho mai pensato che fosse una donna.
Nel teatro è facile, lo so, storicamente i personaggi sono stati interpretati da attori di diversi generi e ciò non importa perché ciò che interessa è il tema che ci raccontano, che affrontano nel loro sviluppo.
“Quale potrebbe essere il tema di Hamlet? La vendetta? L’esitazione? La follia?” A questo ho pensato.

Il nome Hamlet mi sembra giusto perché non è femminile, non è maschile e neanche neutro.
D’altronde, come spiega in maniera cristallina Vera Gheno, anche il genere neutro (presente in alcune lingue) è una trappola in termini di inclusività perché indica qualcosa che è diverso, altro dal maschile e il femminile. Una soluzione esclusiva.
E allora ho capito perché, nonostante mi informi, legga saggi, e mi continui porre domande sull’utilizzo del linguaggio non mi sento mai pronta a rivendicare con forza l’utilizzo del femminile in italiano (per esempio nelle professioni).

So bene che per la formazione dei termini femminili vanno seguite alcune regole grammaticali esistenti, per esempio:
le parole che terminano in -o diventano -a: sindaca, ministra;
le parole che terminano in -aio, -ario diventano -aia, -aria: notaia, primaria;
le parole che terminano in -iere diventano -iera: infermiera, consigliera;
le parole che terminano in -sore diventano -sora: revisora, assessora;
le parole che terminano in -tore diventano -trice: direttrice, redattrice.

e che non usarle e preferire il maschile è di fatto un errore.

Inoltre, mi farebbe sorridere descrivermi come “un coordinatore” e non “una coordinatrice”.
So anche che le lingue non sono imposte dall’alto, ma si mischiano, cambiano con noi, finché sono vive.
Ma nella lotta che contrappone il femminile al maschile non mi sento protetta, coinvolta.

Non so se sia una ribellione intima a ciò che la società mi ha insegnato rispetto all’essere donna, ma sempre più spesso mi chiedo: ma io sono quella donna? Cosa significa essere donna? Avere una vagina? Il seno? Il ciclo mestruale? Procreare? La maternità? Essere meno forte dell’uomo fisicamente? Più sensibile? E se non avessi queste caratteristiche cosa sarei? Un uomo? Un neutro?
Come sta cambiando la mia definizione di umano?

Il binarismo non fa per me.

“Binario”, aggettivo, dal latino binarius, derivato di bini «due per volta», significa “composto di due unità, di due elementi”.

Ma il genere umano non è binario. Ed è bello così.
Moltissime persone non appartengono a queste due categorie inventate per sembrare quelle più vincenti.

E poi

Giorgia Meloni ha detto che non le serve essere chiamata “capatrena” per sentirsi riconosciuta professionalmente. E allora ho capito che non potevo parlare della Via Lattea, ma che dovevo fare una cosa che non vorrei fare perché non mi sento mai abbastanza preparata o intelligente: parlare del gender nella lingua.
E lo vorrei fare, se fossi su un palco a teatro e fossi brava come Federica Rosellini, nei panni di un* Giorgia Meloni/Hamlet, che si finge matt* e nel suo discorso alla Camera dice:
“Non mi interessa essere chiamata “capatrena” perché l’uguaglianza non può essere binaria. L’uguaglianza passa anche attraverso il linguaggio, e forse, per cercarla e fondarla potremmo partire da lì. Troviamo un modo per includere tutt*, troviamolo nel linguaggio”

oppure


“io le chiamo Cristina, Nilde, Oriana, perché vorrò pronunciare anche il cognome quando le persone avranno cognomi che provengono da entrambi i genitori e non siano solo frutto del patriarcato”

oppure

“essere Premier significa rappresentare tutt*. Comincio io.”

Latte è una parola non binaria.

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Lilibet

La regina Elisabetta aveva diversi soprannomi, per esempio in Australia la chiamavano Old Bessy e in famiglia era chiamata Lilibet.
Quest’ultimo lo aveva deciso lei, perché da piccola, quando ancora non sapeva quale sarebbe stato il suo destino, non riusciva a pronunciare Elisabeth, e quando le chiedevano il nome lei rispondeva Lilibet. È un fenomeno abbastanza comune, una mia collega mi ha raccontato che sua figlia Ludovica, dice di chiamarsi Gagà, nonostante in molti la chiamino Lulù.

La parola “soprannome” è composto da sopra e nome, e viene dal latino supranomen.

Attraverso il soprannome un individuo diventa noto in una comunità e con esso viene distinto da omonimi; la sua funzione però può essere anche solo ludica e scherzosa.

I soprannomi che ricordo dall’infanzia sono diminutivi di nomi più lunghi, come Simo, Albi, ma anche per distinguere le persone in caso di omonimia.
Nella mia famiglia paterna, ci sono 13 nipoti: 10 portano il nome dei nostri nonni.
Io, essendo la seconda figlia femmina, ho vinto il nome di mio nonno.
I soprannomi dell’adolescenza invece sono diversi, derivano dal cognome o da qualche episodio in particolare, oppure scelti dalle persone stesse; mi vengono in mente Strip, Jazz, Gipo, Panka, Popo, quasi onomatopee. Sono soprannomi che resistono a distanza di anni.

La questione dei soprannomi mi è esplosa nelle orecchie nel periodo in cui ho vissuto a Napoli. Gli appellativi sono creativi e irriverenti.
Ho provato a dedurre delle caratteristiche del rapporto che hanno i napoletani con i soprannomi:

1. non sono solo una questione famigliare,

2. non sono solo una questione tra giovani,

3. prendono spunto da caratteristiche fisiche ( con qualche punta di body shaming), caratteriali, oppure sono legate alle attività che svolge una persona,

4.un soprannome, se si vive nello stesso quartiere, ce lo si porta dietro per tutta la vita. Lo testimoniano gli annunci funebri della città che spessissimo riportano anche il soprannome del defunto.

Gli artisti CyopeKaf hanno raccolto alcuni di questi manifesti in un libro, intitolato “Detti”.

A mio parere fondamentale è la differenza tra un soprannome che viene subìto e uno di quelli che viene scelto oppure indossato e tenuto. Levante per esempio ha fatto del suo soprannome il proprio nome d’arte.

Una casa è una casa, ma è anche un edificio, un’abitazione, un nido, una reggia, una prigione, in base a chi la nomina; e io sono Michela, Michi, Mic, il papa, Micheluzza, in base al contesto.

Ma cosa sentiamo noi?
Quale nome vogliamo essere?

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Volver

Volver è la parola di inizio settembre, un verbo spagnolo che si traduce in italiano con “tornare”.
Viene dal latino “volvere“, ossia “volgere”.
Volgere significa “indirizzare qualcosa in un certo punto, piegare, voltare, mutare, trasformare”.
Torniamo sempre diversi da come siamo partiti.


Il verbo tornare in giapponese si dice “kaeru” e ha una bella storia.
La cultura giapponese è piena zeppa di cerimonie, e la sua lingua ovviamente non è da meno.
Quando una persona esce dalla propria casa, tradizione vuole che dica “ittekimasu“, letteralmente “vado e torno”, anche se sta partendo per mesi.
Chi invece resta a casa, saluta con la formula “itterashai“,che potremmo tradurre con “fa’ attenzione”.
Kaeru però significa anche rana: la rana infatti è la protettrice dei viaggiatori e spessissimo è presente nei giardini domestici per augurare che tutte le persone che escono dalla casa possano tornare.
In alcune stazioni ferroviarie giapponesi ci sono statue di rane che aspettano sulle panchine.
Quando una persona torna a casa, tradizione vuole che dica “tadaima“, e gli viene risposto “okaerì” che significa “bentornato”.

Non credo che l’anno cominci a settembre, mi sforzo di uscire dalla dinamica dettata dall’anno scolastico e, seguendo il ciclo delle stagioni, penso che l’autunno sia il momento in cui si raccolgono i frutti di ciò che si è seminato e curato durante l’anno, ma nonostante questo,
auguro un sincero “okaerì” a tutti noi.



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Mindfulness

Quando, un po’ più di un anno fa, tra una schiscia e un frutto, ho annunciato ai miei colleghi che avrei comprato casa di lì a poco, una mia collega mi ha dato questo consiglio: “Non importa di che colore saranno le piastrelle del bagno o sei riuscirai a salvare la graniglia rosa del pavimento, ma, mi raccomando, metti in budget un bel corso di mindfulness, perché sarà lui a salvare te”.
In effetti, questo consiglio si è rivelato molto utile.

Leggendo il giornale di questi giorni, ho pensato che questa può essere una parola che ci potrà aiutare ad affrontare questa campagna elettorale (di cui vediamo già le prime vittime).

Con mindfulness si intende un’attitudine che si coltiva attraverso una costante pratica di meditazione sviluppata a partire dai precetti del buddismo, volta a portare l’attenzione verso il momento presente.

Per fare un esempio pratico, ogni volta che vengo assalita dalla paura del prossimo governo e organizzo mentalmente la mia emigrazione
(richiedere al lavoro un’aspettativa, capire chi mi potrebbe aiutare con la gestione dell’ Air bnb della casa – d’altronde la graniglia salvata in qualche modo dovrò pagarla – e iniziare a cercare lavoro all’estero), potrei respirare, osservare e lasciare andare questi pensieri, e constatare che mancano ancora alcune settimane alle elezioni, che non so quale sarà l’esito e non mi trovo ancora nella situazione di dover migrare.

La meditazione è una pratica che, se esercitata con costanza, aiuta a rimanere ancorati al presente, ad accettarlo e a coltivare la gratitudine. Pratico da qualche mese utilizzando una applicazione online a pagamento che si chiama “La Mindfulness App” e ho letto un libro degli anni ’90 di Jon Kabat – Zinn che si intitola “Wharever you go, there you are“.
Sono particolarmente contenta delle meditazioni guidate dell’app, perché sono divise in corsi tematici, body scan (utilissimi al termine di una pratica di yoga casalinga autogestita), e presenta meditazioni di diverse durate, perfette quindi anche nei giorni più impegnativi.

“Mindfulness” è la traduzione inglese di “sati“, una parola della lingua pali dell’India antica – in cui sono stati scritti molti testi buddisti originali – che indica una sorta di consapevolezza del momento presente.
È composta dai morfemi:
mindful (a sua volta composto da mind+full) + –ness.
Mindful è un aggettivo e significa “consapevole” , -ness invece è un morfema che in inglese si aggiunge ad alcuni aggettivi per trasformarli in sostantivi, come accade in loneliness, kindness, etc..

“Mindfulness” per noi italiani è quindi un prestito linguistico, ossia un termine importato da un’altra lingua.
Nel lessico italiano contemporaneo se ne contano più di 6.000 e la maggior parte riguarda il linguaggio specialistico.
I prestiti linguistici non sono propri della nostra lingua, ma sono presenti anche nelle altre (addirittura in giapponese esiste un sillabario, il katakana, impiegato soprattutto per la trascrizione delle parole straniere e prese in prestito dalle altre lingue).

Poiché si tratta di una vera e propria importazione e non di un prestito che poi si ridà, è interessante la seguente citazione del linguista Mario Alinei:

Quanto ai prestiti linguistici, «si tratta di acquisizioni, o di veri e propri regali, che come tali di solito arricchiscono e non impoveriscono la lingua che li riceve.
E da questo punto di vista è degno di nota che, sebbene tutte le culture accettino la norma di buona educazione secondo cui ‘a caval donato non si guarda in bocca’, la storia delle lingue conosca tanti ‘puristi’, non proprio bene educati, che passano il loro tempo a guardare in bocca i cavalli stranieri che ci sono stati regalati per svalutarli e sostenere che bisogna usare solo cavalli nostrani, o per lo meno introdurre delle quote di immigrazione…Dimenticando, fra l’altro, che proprio l’inglese, oggi principale incriminato per le valanghe di ‘regali’ che da qualche tempo rovescia in tutte le lingue del mondo, è una delle poche lingue occidentali composte per più di metà di prestiti da un’altra lingua: il francese. […]. Purtroppo, non c’è peggiore educatore del censore! E, come si vede, è proprio la lingua più aperta e tollerante ai ‘prestiti’ quella che oggi ha conquistato il mondo.

La questione dei forestierismi è complessa e meriterebbe ore di discussioni davanti a qualche bicchiere di vino.
Talmente complessa che nel 2015 l’Accademia della Crusca, ha costituito il gruppo “Incipit“, con l’obiettivo di monitorare i forestierismi nel momento del loro primo ingresso in italiano e di promuovere l’uso di corrispondenti italiani, già esistenti o creati ad hoc.

Onestamente più studio linguistica e più sono confusa.
Nel caso di “mindfulness” il corrispettivo italiano sarebbe “consapevolezza”.
Ma sarebbe la traduzione più giusta?
Potremmo sacrificare la precisione per sostenere l’utilizzo della nostra lingua nazionale?
Non credo che preferirei un termine italiano, ma forse il mio pensiero è viziato dal fatto che ho sempre meditato e letto a articoli e libri a riguardo in lingua inglese. Non a caso infatti ho usato “body scan“, un altro prestito linguistico.
A questo proposito, vi lascio il link di un articolo simpaticissimo del New Yorker di un po’ di anni fa, che prende in giro un’esercitazione di meditazione, ambientandola prima di un attacco nucleare.
https://www.newyorker.com/magazine/2017/10/09/nuclear-mindfulness

Sarà un mese impegnativo.

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Programma

Mentre imprecavamo perché ci avevano cancellato il volo delle vacanze in nord Europa, guardavamo ingiallire i parchi per via della siccità, non dormivamo un po’ per il caldo, e un po’ per l’arrivo del conguaglio delle bollette del gas, sì, è anche caduto il governo.

Il prossimo 25 settembre quindi, saremo tutti chiamati al voto (anche i diciottenni per il voto al Senato, per la prima volta).

Entro il 14 agosto, i partiti e i gruppi politici organizzati intenzionati a partecipare alle elezioni, hanno dovuto depositare, presso il Ministero dell’Interno, il contrassegno con il quale distinguere le proprie liste (istruzioni a questo link).
Sono stati depositati in tutto 101 contrassegni, alcuni dei quali molto bizzarri.

Entro il 24 agosto, ogni gruppo dovrà presentare lo statuto, il programma elettorale corredato di nome del capo della forza politica, e le liste dei candidati.

Mentre leggevo i primi articoli di giornale sulla campagna elettorale sono stata assalita oltre che da una noia mortale (stessi nomi, stessa storia, stesso posto, stesso bar), da una domanda:

Ma di cosa parla la politica oggi?

Ho pensato quindi di scrivere una serie di articoli sulle parole più utilizzate in questa campagna elettorale, quelle che ci possono aiutare ad affrontarla in modo sereno e pacifico e quelle che ahimè, mancano all’appello e che invece vorrei trovare.

L’analisi del linguaggio utilizzato nella politica è un campo della linguistica molto interessante (soprattutto nella pragmatica linguistica), questa quindi è un’ottima occasione per approfondirlo.
Partire proprio da programma, mi sembra il passo più coerente;
la vera promessa, il biglietto da visita di ogni gruppo che si propone di governare l’Italia.

Programma viene dal greco da PRO ( che significa “ante”, “prima di”), e GRAMMA (da “graphm-ma” scrittura, quindi atto, documento).
Nell’antica Grecia il programma indicava l’argomento che doveva discutersi nell’adunanza degli ateniesi, una sorta di ordine del giorno.
La definizione di programma che troviamo oggi sul sito di Treccani è la seguente:

enunciazione particolareggiata, verbale o scritta, di ciò che si vuole fare, d’una linea di condotta da seguire, degli obiettivi a cui si mira e dei mezzi con cui s’intende raggiungerli; discorso, scritto, manifesto in cui si espongono le intenzioni, i fini, o si illustrano i principî, le ragioni, i limiti di un’opera o di un complesso di opere, e simili.

E, nello specifico programma elettorale:

quello che in relazione a una data elezione viene formulato da un partito o da un blocco di partiti, al fine di indirizzare il consenso e il suffragio degli elettori su una determinata lista di candidati

I programmi politici sono pieni di intenzioni e promesse: e le promesse, in pragmatica linguistica, sono atti linguistici performativi.
Teorizzati da J.L. Austin in “How to do things with words“, gli atti linguistici performativi sono quelli in cui l’azione che viene comunicata si compie nell’atto stesso in cui viene enunciata.
Ne sono esempi “la dichiaro in arresto”, “ti prometto che ripagherò il debito” e “scommetto 10 dollari sul 5”.
Per quanto riguarda le promesse, perché ci siano le condizioni felicità ( e quindi che l’atto linguistico sia valido), è necessario che la promessa fatta si possa mantenere (non posso promettere che domani pioverà), e che chi fa la promessa abbia l’intenzione di mantenerla.
La domanda quindi, ora sorge in modo spontaneo: quante delle promesse fatte in campagna elettorale rispettano le condizioni di felicità?

Non ci resta che disdire la prenotazione del week-end del 25 settembre (che tanto ci cancellano comunque il volo), preparare la tessera elettorale, controllare di avere la carta d’identità valida, e metterci a studiare i programmi elettorali dei singoli gruppi: troviamo proprio lì le intenzioni dei nostri candidati.
Il mio consiglio è quello di non leggere solo le riduzioni o gli approfondimenti fornite dai giornali, ma di prendersi del tempo per leggere in autonomia i programmi depositati dai partiti (si trovano facilmente online): senza la mediazione dei giornalisti, è più facile farsi un’idea della cura con cui sono stati pensati e scritti.

Ah, se Nicoletta Orsomando potesse leggerci i programmi elettorali!
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Sciampagna

A me l’inno e la bandiera italiana mettono in imbarazzo.
Mi mettono a disagio anche i discorsi sugli italiani: quando, soprattutto negli ultimi 2 anni, mi sono trovata a sentire dibattiti su quanto gli italiani trovino le forze per eccellere nei momenti di difficoltà, ho sempre faticato a crederci e a trovarmi d’accordo.
Credo che le ragioni di questo mio sentimento siano principalmente 2:

La prima, che ho capito solo mentre leggevo “Three Guineas” di Virginia Woolf , è che

As a woman I have no country. As a woman I want no country. As a woman, my country is the whole world “.

La seconda, è lui, il fascismo.
Non posso guardare la bandiera italiana o sentirne l’inno, senza pensare a che popolo perduto e fragile siamo stati 75 anni fa.
Ovviamente quest’anno mi è spesso capitato di avere un conflitto interiore perché da una parte felicissima e piena di ammirazione per i nostri sportivi, e dall’altra il disagio dell’italianità.
La scorsa estate infatti, mentre gli italiani vincevano TUTTO, io, nel preparare un esame sulle lingue minoritarie, studiavo le ripercussioni che ha avuto il fascismo sulla lingua italiana.
Il linguista Fiorenzo Toso, nel saggio “Le minoranze linguistiche in Italia”, ipotizza che il rifiuto di ogni nazionalismo post bellico possa addirittura aver ritardato (di ben 50 anni!) la proclamazione dell’italiano come lingua ufficiale, avvenuta appunto solamente il 15 dicembre del 1999, nell’articolo 6 della Costituzione.
Durante il regime fascista infatti, poiché si riteneva che “i popoli forti impongono il proprio linguaggio e non raccattano ogni foresteria”, furono bandite tutte le espressioni linguistiche prese in prestito da lingue straniere, tradotti in italiano tutti i nomi e cognomi( non posso non citare Luois Armstrong divenuto Luigi Fortebraccio), e perseguitate le minoranze linguistiche come il tedesco in Alto Adige o lo sloveno nella Venezia Giulia.

Nel 1938 i fascisti hanno anche vietato l’uso del lei, a favore del voi perché, sostenevano, legato alla borghesia, che era uno dei mali da combattere nella società. In questa battaglia contro il lei ci finì anche Totò, che intitolò una sua gag “Galileo GaliVoi”. Un gerarca la vide e lo denunciò, ma il processo venne archiviato.

Il culmine dell’interventismo legislativo fu raggiunto nel 1940, con la proibizione dell’esposizione di parole straniere sia nelle intestazioni delle attività commerciali e professionali, che nelle insegne e in ogni altra forma pubblicitaria.
All’Accademia d’Italia fu affidato il compito istituzionale di proporre sostituti italiani per i prestiti linguistici e vennero quindi formulate circa 1500 proposte sostitutive.
Sciampagna, era una di queste, il termine ammesso in Italia per indicare lo Champagne.
Ecco altre traduzioni imposte dal regime:
ferry-boat – ferribotto
avere un flirt – fiorellare
toast – fetta di pan tosto
cocktail – arlecchino
vestito a paillettes – vestito allucciolato

Ci sono parole invece che, introdotte da questa ordinanza, ed entrando nell’uso comune, hanno resistito nel tempo come regista e autista.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, insieme alla democrazia, in Italia è tornata la libertà di usare le parole e le lingue che preferiamo, e una maggiore attenzione nei confronti di dialetti regionali e lingue minoritarie
(attenzioni, ahimè non sufficienti, ma di questo vorrei parlare in un altro post).

Ma ora, in religioso silenzio, ascoltiamo Peppino di Capri e immaginiamolo mentre canta “Sciampagna” per tutto il pezzo.

Sciampagna
Vanessa Ferrari, 30 anni, alla sua quarta olimpiade, decide di prendersi quella medaglia olimpica che più volte ha sfiorato e, nonostante l’ennesimo infortunio al tendine, il Covid durante il quale, sintomatica, si allena in garage, e nonostante le qualificazioni ritardate per via della pandemia, vince un bellissimo argento.

Riferimenti:

  • Fiorenzo Toso 2008 Le minoranze linguistiche in Italia Il Mulino.
  • Me ne frego! 2014, documentario scritto e diretto da Vanni Gandolfo per l’Istituto Luce.
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Trasmutare

Chi ha ucciso mio padre, É. Louis

Viene dal latino transmutare, composto da transmutare 
e significa letteralmente trasformare, mutare in altra forma, in altro aspetto.
Potremmo dire che è ciò che accade a Bruce Banner quando si arrabbia.
Umberto Eco in Dire quasi la stessa cosa dice che abbiamo una trasmutazione quando traduciamo un romanzo in un film o in un’opera teatrale perché, “cambiando la materia”, ci troviamo di fronte a un’opera altra.

Prima di questa terribile pandemia andavo spesso a teatro da sola.
Certo, non è bello come quando ci vai con qualcun altro perché ti perdi la birretta dopo lo spettacolo in cui scambi impressioni e pensieri, ma l’ho sempre considerato un po’ come concimare il mio orticello.
Una di queste volte ho visto “Reality” di Deflorian / Tagliarini al Pim Off e sono rimasta folgorata.
Ricordo ancora Daria Deflorian sdraiata sul palco che faceva delle prove di morte, mi faceva ridere moltissimo.
A colpirmi non è stata solo la storia incredibile di Janina Turek, ma la loro ricerca, la loro drammaturgia, la disinvoltura e la semplicità della recitazione.
Da quel giorno, ogni volta che vengono a Milano compro il biglietto mesi prima e lo aspetto come si aspetta un viaggio.
Una volta al Piccolo Teatro hanno portato uno spettacolo costruito su “La Domenica”, un brano di Giovanni Truppi, che amo moltissimo, e da lì ho capito che non li avrei lasciati più.

Il 26 aprile poi, l’annuncio della riapertura dei teatri. Incredibile!
Certo, immagino che le condizioni per le riaperture siano sostenibili solo per quelli più grandi e così mi sono fiondata sul sito del Teatro della Triennale: ed eccolo lì, un podcast sulla loro nuova produzione.
Questa volta non si tratta di una nuova drammaturgia, ma di una vera e propria “trasmutazione” del libro di  Édouard Louis Chi ha ucciso mio padre. Il testo è un memoir/dialogo dell’autore con il padre.
Un padre ossessionato dalla mascolinità, che abbandona presto la scuola “perché sottomettersi alla disciplina del sistema scolastico è da femmine o da froci”, che dopo “aver provato a essere giovane per cinque anni” ritorna nel paese che lo ha cresciuto e va a lavorare in fabbrica, come tutta la sua famiglia. Fabbrica che (quasi) lo uccide.
Ho ascoltato tutto il podcast mentre cucinavo e appena l’ho finito ho prenotato il libro in biblioteca. La Fondazione per leggere è fantastica: in 24 ore è arrivato, e mi sono trovata il giorno dopo a cena a divorarlo.
L’ho letto tutto d’un fiato come si fa con uno spettacolo teatrale, e, penso che sia davvero un memoir fortissimo.
Come sempre, ciò che mi ha appassionato è l’umanità attribuita al padre dell’autore. In alcuni momenti lo odi, ma in altri, davanti ai suoi gesti, anche quelli mancati, senti una tenerezza che ti stritola lo stomaco. Vorresti abbracciarlo.
È ciò che accade con i genitori.

Il 21 maggio finalmente tornerò a teatro a vedere una produzione di Deflorian /Tagliarini. Che emozione.

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Cringe

“Adorazione” di Alice Urciuolo

“Adorazione” di Alice Urciolo, è un romanzo che ho lasciato scegliere per me alle due libraie di BookMorning, un bookshop indipendente di Genova.
Molto probabilmente se non lo avessero fatto non lo avrei mai letto; nonostante la splendida copertina non ne sarei stata attratta leggendo la trama.
Per questo sono molto contenta di aver detto “scegliete voi per me?”, perché mi ha permesso di uscire dalla mia “comfort zone” di lettrice. Questo romanzo è edito da 66thand2nd, ed è stato inserito nella dozzina dei libri finalisti del Premio Strega 2021.
L’autrice, Alice Urciuolo, è una sceneggiatrice di serie televisive e ciò si percepisce bene sia dalla costruzione del testo che dai dialoghi.
Non so se lo rileggerei, ma sicuramente mi ha mosso qualcosa dentro e mi ha tenuta incollata per tutto il tempo.
L’ho terminato infatti alle 2:30 di notte e mi sono ritrovata sveglia, attiva con la solita domanda di quando finisce un bel libro: e adesso che faccio?
I protagonisti, quelli che di solito ci mancano quando il libro è chiuso, sono adolescenti che vivono nella periferia di Latina.
La vita di periferia è raccontata benissimo, senza i soliti clichè di malavita e disagio, ma attraverso i riti che scandiscono il tempo fuori dalle città: il rinfresco di un battesimo nella famiglia più in vista, la festa del paese con tanto di bancarelle, il tempo passato sugli autobus, la noia.
Chiunque sia cresciuto in un clima di provincialismo può capire quali siano le convenzioni sociali che governano i piccoli centri e in questo libro vengono raccontate in modo molto preciso.
Le periferie in fondo non sono molto diverse tra di loro, non solo in una dimensione di luogo ma anche di tempo. Quello che sentono i protagonisti non è molto diverso da quello che sentivamo noi adolescenti degli anni 90.
Le tre figure principali, tutte femminili, crescono, anche in modo sbagliato, indecente, doloroso, cadono e si rialzano, hanno segreti, sono spaventate ma nello stesso tempo impavide. Sono molto umane. Amano.
La mia preferita, Diana, è un bocciolo di sfrontatezza e incoscienza, incomprensibile, completamente disarmante.

E probabilmente per questo durante la lettura, la parola che più mi ha lampeggiato dentro è stata “cringe“.
Cringe è un prestito linguistico dall’inglese che ha i seguenti significati:

Agg. ‘imbarazzante, detto di scene e comportamenti altrui che suscitano imbarazzo e disagio in chi le osserva’.
Sost. 1. ‘la sensazione stessa di imbarazzo’; 2. ‘il fenomeno del suscitare imbarazzo e, in particolare, le scene, le immagini, i comportamenti che causano tale sensazione’.

accademiadellacrusca.it

Solitamente viene utilizzato da giovani e in ambito digitale, tanto che non è ancora stata inserita all’interno di nessun dizionario.
La troviamo però all’interno dell’elenco delle nuove parole dell’Accademia della Crusca.
Possiamo trovare la sua forma superlativa assoluta cringissimo o il participio presente cringiante.

L’etimologia di questa parola è molto bella perché “to cringe” significa “rannicchiarsi o contrarre i muscoli involontariamente come per il freddo o per il dolore” che ci racconta benissimo il sentire fisico della vergogna.

Ciò che un po’ mi è accaduto leggendo questo testo. Non perché mi vergognassi delle scelte prese dai personaggi o avessi un giudizio morale su di loro, ma perché ho percepito tutta la confusione dell’adolescenza.
L’ho ricordata. Come piccole contrazioni dei muscoli facciali.

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Insulo

La parola “isola” è una delle mie preferite in tutte le lingue perché i viaggi più belli che ho fatto sono sempre cominciati o terminati con un traghetto. Sarà per l’Odissea edizione ragazzi che da piccola consumavo o perché tra “team terra” e “team mare” sceglierò sempre il secondo, ma ogni volta che mi imbarco mi sento felice.
Di un’insolita isola parla un godibilissimo film presente da ieri nel palinsesto di Netflix, “L’incredibile storia dell’isola delle Rose” di Sydney Sibilia, con un cast validissimo.
Racconta in forma romanzata la vera storia della piattaforma artificiale creata dall’ingegnere Giorgio Rosa, proclamata micronazione il 1º maggio del 1968 e demolita dallo stato italiano nel febbraio del 1969.
Nonostante la critica non sia stata tenerissima nei confronti del film, a me è piaciuto parecchio.
Giorgio Rosa, ingegnere geniale costruisce una piattaforma-isola al largo di Rimini, fuori dalle acque nazionali e non solo inizia a viverci con degli amici, ma fonda una nazione vera e propria nominando un governo, producendo una propria moneta, dei francobolli, e adottando una lingua ufficiale diversa dall’italiano: l’esperanto.
Per lingua ufficiale si intende quella che viene scelta da uno Stato per la produzione dei propri documenti ufficiali.
L’esperanto, lingua artificiale creata tra il 1872 e il 1887 da Ludwik Lejzer Zamenhof in Polonia si rivela una scelta perfetta per il loro esperimento; citando la pagina di Wikipedia leggiamo che:

scopo della lingua è di far dialogare i diversi popoli cercando di creare tra di essi comprensione e pace con una seconda lingua semplice, ma espressiva, appartenente all’umanità e non a un popolo. Un effetto di ciò sarebbe quello di proteggere gli idiomi “minori”, altrimenti condannati all’estinzione dalla forza delle lingue delle nazioni più forti. Per questo motivo l’esperanto è stato ed è spesso protagonista di dibattiti riguardanti la cosiddetta democrazia linguistica.

Le regole grammaticali della lingua sono abbastanza semplici e derivano da lingue esistenti; ovviamente non prevedono eccezioni.
Anche i vocaboli derivano da idiomi preesistenti, in gran parte da latino, lingue romanze, germaniche e slave, anche se esistono dei prestiti anche da lingue indoeuropee, come il giapponese.
Isola in esperanto si dice insulo.
Si dice così perché i sostantivi singolari terminano in “o” mentre per la formazione del plurale si aggiunge la finale j.
L’aggettivo ha la finale “a” e non esiste articolo indefinito; esiste un solo articolo definito “la”, uguale per tutti i sessi, casi e numeri (infatti, l’isola si chiama “Insulo de la Rozoj“).

Se volete approfondire le regole della lingua, potete farlo in un modo semplicissimo: sul sito della Fondazione Esperantista Italiana ci si può iscrivere al corso online. La procedura è molto semplice e, dopo aver riempito e inviato il form, riceverete la prima lezione e vi verrà assegnato un tutor a cui inviare i vostri esercizi.
Esistono vari studi che dimostrano che è una lingua semplice da imparare anche da autodidatti e in età adulta (per via delle forme regolari); inoltre la logica con cui è stata creata la rende perfetta per essere usata in informatica, nel ramo della linguistica computazionale e per il riconoscimento automatico del linguaggio.
Ci sono proposte per usare l’esperanto come lingua franca per i lavori nel Parlamento europeo, principalmente per motivi economici o per evitare che si vada verso una o più lingue nazionali, ma al momento non è stata presa alcuna decisione in questa direzione. Insomma, è una lingua artificiale di fine ‘800 che però mostra di avere tutte le caratteristiche per crescere e diffondersi. Giorgio Rosa ci aveva visto lungo, ĉu vi ne pensas?

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Wug

Vincent Giarrano, 2020
Vincent Giarrano, 2020

La scorsa primavera sono riuscita a frequentare un corso universitario sull’insegnamento della seconda lingua, ed è lì che sono inciampata nei libri di Bill Van Patten.
Il primo che ho letto è “Key Questions in Second Language Acquisition“: scritto in un inglese abbastanza semplice, è un manuale che dedica un capitolo a ogni “domanda chiave” sull’acquisizione della seconda lingua aggiungendo uno studio esemplare per ogni tematica.
Le domande che si pone e a cui cerca di dare una risposta sembrano molto semplici; quando è cominciato lo studio dell’acquisizione della seconda lingua, quale ruolo ricoprono l’input e l’output nell’apprendimento, qual è il livello di acquisizione finale e poi, ebbene sì, se l’istruzione fa la differenza. Le risposte purtroppo non sono altrettanto semplici.
Attenzione: sento il dovere di avvisare gli/le insegnanti di lingua che leggeranno da questa riga in poi , che per loro potrebbero esserci dei contenuti dolorosi.
L’istruzione fa la differenza nell’acquisizione di una lingua?
La risposta che ognuno di noi istintivamente darebbe è “ovviamente si!”. Dopotutto, non abbiamo tutti imparato a scuola?
In realtà la risposta, ci dice Van Patten, non è così ovvia.
Per affrontare meglio la questione bisogna capire la differenza tra “conoscenza esplicita” e “conoscenza implicita”.
La prima comprende tutte quelle regole che riconosciamo e sapremmo spiegare (in inglese per esempio, nel simple present alla terza persona singolare si aggiunge la -s), la seconda invece si riferisce a quelle che agiamo e non sappiamo perché (tutte quelle forme che accettiamo perché “ci suonano meglio”).
Dobbiamo poi capire DOVE avviene l’apprendimento.
Ovvio, nel nostro cervello, ma più precisamente nei sistemi di memoria a lungo termine, poiché la maggior parte della lingua deve essere imparata. Stiamo parlando quindi di memoria dichiarativa e memoria procedurale.
La prima contiene sia la memoria relativa al bagaglio culturale dell’individuo sia quella episodica . Per esempio grazie a questa memoria riesco a ricordare il testo di Green Eyes di Erykah Badu e che lunedì scorso ho aperto un panettone a colazione mentre fuori nevicava.
Viene consolidata con il sonno, aiutata con l’esercizio fisico e messa in crisi dal morbo di Alzheimer.
Nella memoria dichiarativa, la conoscenza può essere appresa molto rapidamente , anche con una sola esposizione all’input (per esempio adesso sapete che lunedì scorso ho mangiato una fetta di panettone a colazione), anche se ulteriori esposizioni naturalmente rafforzano il ricordo.
Questa conoscenza è almeno in parte, anche se non completamente, esplicita.
La memoria procedurale (la mia preferita) si occupa invece di come si fanno le cose e di come si usano gli oggetti.
Nella vita quotidiana ci affidiamo a lei centinaia di volte, quando andiamo in bicicletta, allacciamo le scarpe, guidiamo senza pensare consapevolmente al come si fa. La memoria procedurale agisce senza che vi sia consapevolezza e viene invece messa in crisi dal morbo di Parkinson. Questa è la memoria che utilizziamo quando ci scopriamo a usare una forma verbale o una struttura sintattica che non pensavamo neanche di sapere, è talmente “naturale” che non sappiamo spiegarla.
Avete mai spiegato a qualcuno come saltare la corda?
La ricerca dice che entrambe le memorie sono attivamente coinvolte nell’apprendimento di una lingua.
La domanda sorge spontanea: quale delle due memorie viene sollecitata e allenata nell’insegnamento scolastico?

Un’altra cosa che dobbiamo sapere è che l’apprendimento delle lingue avviene per stadi, cioè che per tutte le lingue e tutti gli individui segue sempre lo stesso ordine: in inglese si impara sempre prima la forma in -ing della forma plurale aggiungendo la -s.
In uno studio pubblicato alla fine degli anni ottanta, Maria Pavesi ha paragonato apprendenti italiani che vivevano in Italia e studiavano inglese regolarmente a scuola a italiani emigrati nel Regno Unito che avevano poca o nessuna formazione di inglese (avete presente l’anno sabbatico a Londra come cameriere per imparare la lingua?).
Dallo studio di Pavesi, la principale distinzione tra le due tipologie di apprendenti non ha a che fare con l’ordine di apprendimento, ma la qualità dell’input.
Ovviamente in contesti formali come le aule, gli studenti sono spesso esposti a discorsi più complicati e pianificati che contengono molti più esempi di caratteristiche linguistiche che non si trovano nella lingua parlata di tutti i giorni.
Nonostante ciò l’ordine di apprendimento e i risultati non mostrano differenze.
È interessante notare come ci siano alcuni studi che mostrino addirittura effetti negativi dell’istruzione sullo sviluppo ordinato.
Spiego meglio.
Il linguista Manfred Pienemann ha pubblicato un suo studio sempre negli anni Ottanta in cui studiava l’ordine di acquisizione delle strutture sintattiche nei bambini.
Scoprì due cose: una era che non importava cosa cercava di insegnare ai bambini, non potevano saltare le fasi della sequenza dello sviluppo.
La seconda scoperta nel suo studio aveva a che fare con la prontezza. Scoprì che gli studenti beneficiavano dell’istruzione solo se quest’ultima era su qualcosa che riguardava lo stadio successivo dello sviluppo.
Se l’istruzione era “troppo avanzata”, o non aveva alcun effetto o, in alcuni casi, aveva un effetto negativo e causava una regressione a uno stadio di sviluppo precedente.
Pienemann ha lanciato la “teachability hipotesis”, vale a dire l’ipotesi per cui l’istruzione è benefica solo se mira alla fase successiva di una sequenza di sviluppo. Ciò significa che un docente non dovrebbe solo conoscere la lingua che insegna ma anche qual è l’ordine di apprendimento delle sue strutture.
Dopo tutte queste premesse (in coda troverete un po’ di bibliografia per approfondire in caso la vostra memoria dichiarativa fosse in tilt dalla mole di informazioni) parliamo della parola WUG.
Jean Berko l’ha usata nel 1958 per studiare come funzionava l’apprendimento della lingua nei bambini. Si arrivava da decenni di strutturalismo e comportamentismo e gli apprendenti erano descritti come vasi vuoti da riempire di regole.
Nel suo celebre studio testa la conoscenza dei bambini delle regole strutturali del linguaggio, tra cui la forma plurale nella propria lingua madre, l’inglese.
Il test avveniva così: Berko mostrava delle immagini in cui c’era un solo oggetto, per esempio una casa.
Sotto, nella didascalia si trovava questa indicazione:
“This is a house. Now there is another one. There are two of them. There are two___________” e il bambino doveva completare con il termine plurale.

Tra di loro però c’erano anche parole inventate, come WUG.

May Helena Plumb - What is an (embroidered) wug?

I bambini, nonostante non avessero sentito il termine prima dell’incontro, componevano il plurale: wugs.
Questa era la prova che i bambini non imitavano ma ricreavano. A pensarci bene accade anche quando i bambini dicono “ho romputo”.
Funzioniamo così: riceviamo l’input, lo assorbiamo, lo rielaboriamo e lo creiamo nuovamente.
In questo processo, quale può essere il ruolo dell’insegnante? Solo quello di fornire input? Qual è il metodo vincente?

Noam Chomsky in un’intervista dice che:

The best “method” of teaching is to make it clear that the subject is worth learning, and to allow the child’s…natural curiosity and interest in truth and understanding to mature and develop.

Un po’ troppo semplice? Non ci crediamo o ci proviamo?

Bibliografia

  • Lillian R. Putnam , An Interview with Noam Chomsky, The Reading Teacher, Vol. 48, No. 4.
    Published by: International Literacy Association and Wiley
  • Alessandro Benati, Megan Smith, Bill Van Patten, Key Questions in Second Language Acquisition Cambridge University Press, Dicembre 2019.
  • Bill Van Patten, Jessica Williams, Theories in Second Language acquisition, Routledge, New York 2015.
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Ciorta

Questo mese abbiamo avuto venerdì 13.
Solitamente accade una volta in un anno, ma può accadere fino a tre volte nello stesso.
Per esempio, il 2015 ha avuto un venerdì 13 a febbraio, marzo e novembre.
Il 2020 invece, ne ha avuti 2: uno a marzo e uno a novembre, perché è un anno bisestile.
Venerdì 13 è considerato un giorno sfortunato nella superstizione occidentale. Secondo lo storico Donald Dossey, la sventura del numero “13” ha origine da un mito norreno che racconta di una cena in cui erano invitate 12 divinità a cui arrivò la tredicesima arrivò causando la morte di uno dei commensali e l’oscuramento della Terra.
Altre fonti invece, mettono in relazione la maledizione del 13 con l’idea che nell’Ultima Cena, Giuda, il discepolo che ha tradito Gesù, fosse il tredicesimo a sedere a tavola.
Viene inoltre utilizzata la missione lunare “Apollo 13” costellata da una serie di eventi particolarmente sciagurati, come prova per dimostrare la malasorte del 13: l’Apollo 13 fu lanciato alle ore 14:13, dal complesso 39 (tre volte tredici). L’ora locale del Texas però, da dove veniva effettuato il controllo della missione, era le 13:13.
La “triskaidekaphobia”, un termine greco in uso dai primi del ‘900, è letteralmente la “paura del numero 13”.
Assecondando questo superstizione, in alcuni edifici ci si riferisce al 13º piano chiamandolo diversamente, per esempio “12b” o “14” saltandolo così nella numerazione.

Divertente è il tentativo di un newyorkese di nome William Fowler di rimuovere lo stigma che circondava il numero 13, e in particolare la regola non scritta di non avere 13 ospiti a tavola, fondando una società esclusiva chiamata “Thirteen Club”.
Il gruppo cenava regolarmente il 13 del mese nella stanza 13 di un Cottage di sua proprietà.
Prima di sedersi per una cena di 13 portate, i membri passavano sotto una scala e uno striscione che recitava “Morituri te Salutamus”.

Questa superstizione non è un’esclusiva della nostra cultura, infatti in oriente esiste la “tetrafobia”, nata dall’assonanza della pronuncia tra la parola “quattro” e la parola “morte”. Anche lì non ci vanno proprio leggeri e fanno attenzione a non nominare il numero durante le festività o quando qualcuno è malato e anche nelle loro costruzioni, come gli hotel, gli uffici, gli appartamenti e gli ospedali si salta il quarto piano (così come il quattordicesimo e il ventiquattresimo) e nei pranzi matrimoniali o in altre occasioni conviviali si salta il tavolo 4.

Non so esattamente se sono superstiziosa o mi diverto a esserlo, però ho qualche fatica a passare sotto le scale, mi capita di aspettare un po’ se attraversa la strada un gatto nero prima di me e indosso sempre la stessa cosa in occasioni importanti.
D’altronde, citando Edoardo De Filippo “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”.
La parola di questo articolo “ciorta”, è napoletana, come De Filippo.
Nel dialetto napoletano significa “sorte”, ma subisce poi un’estensione di significato in base al contesto. “Che ciorta!” significa inequivocabilmente “Che sfortuna!”, ma nella canzone di Pino Daniele “ognuno aspetta ‘a ciorta” si tratta del destino: non si può in alcun modo intervenire, lo si può solo attendere. Kurt Vonnegut nel suo “Mattatoio n.5” diceva “so it goes“. Alanis Morrissette invece in “Jagged little pill” lo chiamava “ironic“.

In italiano possiamo tradurre la parola “ciorta” in modi diversi: malasorte, sorte, destino, sfortune, iattura e così via.
Trasferire una parola dal dialetto napoletano all’italiano è del tutto una traduzione perché il dialetto è una vera e propria lingua.
Citando Fiorenzo Toso in “Le minoranze linguistiche in Italia”

la distinzione tra lingua e dialetto si pone da un punto di vista quasi esclusivamente politico-sociale.
Il prestigio della lingua è dato in particolare dal fatto che mentre il dialetto è espressione spontanea, non formalizzata, della cultura e di una comunità, la lingua risponde alle esigenze di una società organizzata (in particolare di uno stato), che al proprio bagaglio di consuetudini giuridiche, di storia comune, di tradizioni, aggiunge il corollario di un sistema di comunicazione istituzionalizzato, fornito di una “norma”, accettato dai propri membri al di sopra delle eventuali varietà linguistiche specifiche di singolo luogo o di un singolo gruppo.
Ogni idioma quindi parte dalla condizione di dialetto e diventa lingua quando ha un riconoscimento e il supporto di un potere politico.

Quindi il riconoscimento di una lingua standard è un atto politico.
Ma quali sono i fattori che permettono a un dialetto di aspirare allo status di lingua standard?
Citando la Treccani:

Ammon (1986) individua sei attributi principali definitori: lo standard è tale in quanto è codificato, sovraregionale, elaborato, proprio dei ceti alti, invariante, scritto.

Di queste proprietà, pare essere essenziale, e quindi necessaria per la determinazione del concetto dello standard, la codificazione, intesa come l’esistenza di un corpo acclarato di testi di riferimento (opere letterarie modello, grammatiche, dizionari) e un insieme di regole normative appoggiate all’autorità di istituzioni e membri prestigiosi della comunità linguistica, e riconosciute dalla comunità che parla una certa lingua.

Per approfondire l’argomento vi consiglio la voce dell’enciclopedia Treccani al link in sitografia.
Secondo i più recenti dati statistici (del 2015) il 45,9% degli italiani parla in modo esclusivo o prevalente l’italiano, il 32,2% lo alterna con un dialetto, mentre solo il 14% si esprime esclusivamente nell’idioma locale.

I dialetti mi piacciono, un po’ per quella passione che nutro per chi non vince, e un po’ perché mi piace ascoltare accenti e regionalismi differenti.
Probabilmente è per quest’ultimo motivo che amo tanto Milano.

Si sa, la mia città ha perso il proprio dialetto, la propria identità linguistica, ma si è arricchita di mille sfumature di accenti che altri luoghi non hanno la fortuna di conoscere.
Solo nel mio ambiente lavorativo ho la fortuna di sentire 3, 4 diversi dialetti e mi sento molto arricchita.
Oggi l’approccio ai dialetti è cambiato: ci sono stati anni in cui portavano uno stigma, proprio come il numero 13.
I miei genitori, emigrati a Milano da piccoli, l’hanno cancellato dalla propria bocca quasi fosse una vergogna, relegandolo ai momenti in cui tornavano al sud, come solo lessico famigliare.

Invece, dimenticare il proprio dialetto è un po’ come perdere un arto o la voce. Non bisognerebbe farlo mai, neanche con questa parola qui, ciorta.

Sitografia
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Kanguru

Ci sono molti motivi per cui “Arrival” (che attualmente si può trovare su Amazon Prime) di Denis Villeneuve è il mio film preferito.
Alcuni più intimi, altri più universali.
Il primo è la protagonista, Louise, un’importante linguista e traduttrice, coraggiosa e cocciuta. Le viene proposto di tradurre la lingua di alcuni alieni piombati sul nostro pianeta.
Come una vera Malinche, accetta di incontrare gli invasori extraterrestri per studiare il loro linguaggio.
“Kanguru” è una sua parola.
Si narra che il Capitano James Cook, sbarcato lungo la costa nord-orientale dell’Australia per effettuare una riparazione alla nave, chiese agli aborigeni il nome dell’animale avvistato per la prima volta, e loro risposero “kanguru”, che in realtà voleva dire semplicemente “non ho capito”.
Questa storia non è vera, è una leggenda metropolitana:
nel film lei la utilizza per spiegare l’importanza dell’input nello studio della nuova lingua. Non a caso poi, durante il film un altro errore di traduzione della parola “arma” porterà a delle conseguenze quasi irreversibili.
Il secondo motivo è lo strepitoso racconto da cui è tratta la sceneggiatura, “Storia della tua vita”, di Ted Chiang, informatico e grandissimo scrittore di fantascienza.
Un racconto di circa 160 pagine, scritto in prima persona e ricco di analessi e prolessi. Ricco anche di linguistica; Louise infatti, mentre studia la lingua degli Eptapodi (così vengono chiamati gli alieni), ce la racconta. Essa si rivela particolarmente interessante perché è “semasiografica”, ossia esprime il significato senza fare riferimento al linguaggio orale. Gli Eptapodi quindi hanno anche un linguaggio orale, che però si discosta completamente quello scritto.
Louise dice che la loro:

Non è una scrittura che si basa su simboli, ma qualcosa di molto più complesso. Ha un proprio sistema di regole per strutturare le frasi, una specie di sintassi visiva diversa da quella della loro lingua parlata.

E continuando a studiarla arriva a questa conclusione ( che copio qui sotto perché il testo di Chiang a parer mio è magnifico):

Il linguaggio con cui si esprime l’universo fisico ha una grammatica assolutamente ambigua. Ogni evento fisico è un’espressione che può essere analizzata in modi del tutto diversi, uno causale e l’altro teleologico. Sono entrambi validi, e a prescindere dal contesto non è possibile scartarne nessuno.
Quando gli antenati degli esseri umani e gli eptapodi vennero illuminati dalla scintilla della coscienza, percepirono lo stesso mondo fisico, ma interpretarono le percezioni in modo diverso. A partire da quella divergenza si delinearono infine due diverse visioni del mondo. Gli uomini avevano sviluppato una coscienza di tipo sequenziale, e gli eptapodi ne avevano sviluppata una di tipo simultaneo. Noi percepiamo gli eventi secondo un ordine, in un rapporto di causa-effetto fra l’uno e l’altro. Loro percepiscono tutti gli eventi in una volta sola, a partire da un obiettivo che li collega tutti quanti.

Percepire gli eventi tutti in una volta, ci pensate?
Senza futuro, passato, senza “se avessi detto..” “magari tra 10 anni..”
Louise ci riesce.
Quando impara la loro lingua, il suo cervello inizia a percepire come un Eptapode, questo è il regalo che le fanno a cui non si sottrae.
In questo processo c’è un chiaro riferimento all’Ipotesi di Sapir e Whorf, allievi di Boas: essa afferma che lo sviluppo cognitivo di un essere umano è influenzato dalla lingua che parla.
Questa ipotesi assume che il modo di esprimersi determini il modo di pensare. Certo, non sembra nulla di nuovo se la applichiamo alla differenza che può intercorrere tra due lingue di culture diverse ma della medesima specie; ma cosa accade se parliamo di un diverso rapporto con il tempo?
Questa ipotesi mi fa molto pensare a chi lavora con il linguaggio di programmazione: anche in questo caso parliamo di tipologie completamente diverse perché quest’ultimo si fonda su un sistema binario. Anche in questo caso possiamo vedere un’influenza nell’essere umano che lo scrive? Sicuramente, nella fiction, la protagonista è influenzata completamente dal nuovo idioma e assorbe una visione del mondo simultanea vedendo tutta la propria vita.
Un’altra tematica che viene toccata, quindi, è quella del libero arbitrio. Tema caro alla narrativa di fantascienza, che però non approfondirò in questo articolo, anche per non rovinare la lettura o la visione a chi volesse recuperare questo capolavoro. Non so si è capito, ma consiglio vivamente sia il film che il racconto!
Da piccola rivedevo continuamente “La spada nella roccia” della Disney e i “Goonies” di Spielberg. Ogni volta scoprivo qualcosa di nuovo, e trovavo sempre un gran piacere nel farlo. Si dice che è un modo che hanno i bambini per consolidare schemi, esercitare la memoria e creare legami affettivi. Crescendo non mi è più capitato di vedere più volte lo stesso film o leggere lo stesso libro, mi è sempre sembrato uno spreco di tempo vista la quantità di opere meravigliose da “consumare”.
Eppure sia con questo racconto che per il film mi capita di ricercarli, ripeterli, e sentire che un’opera completa l’altra. Come se lo sceneggiatore del film, Eric Heisserer, avesse assimilato il racconto, lo avesse elaborato e infine sputato fuori più “intero”.
Come diceva Umberto Eco in “Dire quasi la stessa cosa“, anche questa è traduzione.

Riferimenti bibliografici:

  • Steven Spielberg (1985) The Goonies
  • Ted Chiang (2008), Storie della tua vita, Edizioni Frassinelli.
  • Denis Villeneuve (2016), Arrival.
  • Wolfgang Reitherman (1963) La spada nella roccia, Walt Disney Production.
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Chi è la Malinche?



“Ma insomma, io non capisco se questa Malinche ti piace oppure no!”, mi ha detto un’amica.
Ma come si può avere un’opinione sola e definita su una figura così dibattuta?

La Malinche è un personaggio leggendario, considerata la prima mediatrice culturale della storia racchiude in sé tanti aspetti controversi. Nata a Veracruz nel 500, dopo la morte del padre, viene venduta dalla madre e dal fratellastro a dei mercanti, e viene poi regalata a Hernàn Cortéz. Lui dopo averla obbligata a battezzarsi, inizia a servirsene (tra le altre cose) come interprete. La Malinche impara presto lo spagnolo e si rivela importantissima nella conquista del Messico da parte degli spagnoli tradendo di fatto il proprio popolo.
Ci sono alcuni eventi della sua esistenza documentati, ma per lo più La Malinche accumula molte leggende e associazioni linguistiche.
Il malinchismo per esempio, descrive un comportamento contro la patria e la propria cultura e la preferenza dello straniero.
Pochissimi studiosi la considerano invece la “prima madre” del Messico.
Laura Esquivel nel 2006 ha scritto un romanzo sulla sua vita che la dipinge come una donna destinata a rimanere nella storia già quando è in fasce, regalandoci queste parole profetiche del padre:

—Hija mía, vienes del agua, y el agua habla. Vienes del tiempo y estarás en el tiempo, y tu palabra estará en el viento y será sembrada en la tierra. Tu palabra será el fuego que transforma todas las cosas. Tu palabra estará en el agua y será espejo de la lengua. Tu palabra tendrá ojos y mirará, tendrá oídos y escuchará, tendrá tacto para mentir con la verdad y dirá verdades que parecerán mentiras. Y con tu palabra podrás regresar a la quietud, al principio donde nada es, donde nada está, donde todo lo creado vuelve al silencio, pero tu palabra lo despertará y habrás de nombrar a los dioses y habrás de darle voces a los árboles, y harás que la naturaleza tenga lengua y hablará por ti lo invisible y se volverá visible en tu palabra. Y tu lengua será palabra de luz y tu palabra, pincel de flores, palabra de colores que con tu voz pintará nuevos códices.

“Pintar nuevos còdices”, bellissimo.
Oppure racconta le sue preoccupazioni davanti alle prime traduzioni:

Ser «la lengua» era una enorme responsabilidad. No quería errar, no quería equivocarse y no veía cómo no hacerlo, pues era muy difícil traducir de una lengua a otra conceptos complicados. Ella sentía que cada vez que pronunciaba una palabra uno viajaba en la memoria cientos de generaciones atrás

Anna Lanyon invece ha scritto un libro intitolato “Malinche’s conquest” in cui racconta il suo viaggio alla scoperta della vera identità della Malinche. Comincia il suo libro parlando del suo percorso di studi in lingue introducendo una tematica cara alla Malinche e anche a me:

Should translation of poetry even be attempted? she asked. Was it possible? There were times, she told us, when she still wasn’t certain. When you love a poet’s work, she warned us, it could feel like a betrayal. ‘Traduttore, traditore,’ she would murmur at these moments, with a cautionary smile. ‘Translator, traitor . . . Wise words, don’t you think?’

Si, io la penso così, che ogni traduzione abbia un piccolo tradimento al suo interno. Poi continua con il suo viaggio e la scoperta della Malinche e la sua decisione di studiarla, dedicarle il suo tempo:

Some days later I spoke to a fellow student from the history faculty. Like me he had an interest in Mexico, so I told him I was thinking of basing some post-graduate research on Malinche.
‘Malinche?’ he said. ‘Why Malinche?’ He looked genuinely shocked. ‘Well,’ I said hesitantly, ‘because she had such a profound impact on Mexico.’
‘But what an impact.’ He shook his head. ‘Why not research the life of Sor Juana, or Josefa Ortiz de Dominguez, the independence leader?’ he said. ‘Why not choose a more edifying subject?’
‘Much of women’s experience in this world is unedifying,’ I told him.
‘Besides, it seems to me there is something universal about what happened to Malinche, during her lifetime, after her death. It’s not just a Mexican story.’

“Unedifying”. Se cerchiamo la traduzione di edifying sul vocabolario troviamo “edificante”. Edificante significa “che incita, che spinge al bene”, ma anche “che istituisce in modo stabile”, e chi meglio di lei può essere definita edificante per il popolo messicano? Lei che è stata la madre del primo “mestizo”?

I saw Malinche first in Mexico City, on the walls of the Palacio Nacional. She was a solitary woman in Diego Rivera’s famous mural. She stood there framed within an arch at the base of a great staircase. Her long black hair was swept back from her face. She wore the graceful white cotton tunic, the huipil, I had seen worn by the Mayan women of the south, and like them, her only adornments were a pair of earrings and a long string of beads, coiled twice around her neck. I noticed that she clasped a small boy to her and that the child’s face was buried in her dress, in an attitude of fear. Her own expression, as she glanced toward Hernan Cortés, was vigilant. She was surrounded by people but she seemed entirely alone with her child. I turned to the friend who had brought me to the National Palace. ‘Who is she?’ I asked him. ‘That’s Malinche,’ he said. ‘Have you never heard of her?’ I shook my head, but I didn’t take my eyes off the woman. ‘She was Cortés’s guide,’ he said, ‘and his interpreter throughout the Conquest.’ ‘And who is this child with her?’ ‘That is their son,’ he replied. ‘I don’t recall his name, but he was the first of us.’ ‘The first Mexican?’ I asked him, puzzled. ‘Yes,’ he said. ‘In a way, yes. He was the first child of a Spanish father and an Amerindian mother. The first mestizo.’

Come avrete capito, La Malinche mi piace.
Si immerge in un’altra lingua, cultura e questa mescolanza genera un nuovo popolo.
Tradisce il suo però, lo so. E per di più con il peggiore dei nemici, il colonizzatore.
Ma mi chiedo, avrebbe avuto tante altre alternative?
Come può una persona venduta durante l’infanzia dalla propria madre capire la fedeltà?
Possiamo davvero condannare una persona che non essendo padrona del proprio corpo e del proprio tempo, compie delle scelte discutibili?
Questa è La Malinche: poco santa e così terribilmente umana!
Traditrice come ogni traduzione,
avventurosa come ogni viaggio,
misteriosa come le parole che ancora non conosciamo.



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Tsukahara

Mitsuo Tsukahara è un ginnasta nato nel 1947 e ha partecipato, vincendo molte medaglie alle olimpiadi del ’68, ’72 e ’76.
Tsukahara è anche il nome di un salto della ginnastica artistica, che lui ha portato per primo in gara. In linguistica questo meccanismo di “allargamento” o “restringimento” del significato di un termine si chiama “metonimia”.
Quindi il significato del cognome di Mitsuo è stato “allargato” e scelto per indicare un salto che ha inventato lui. Ci sono molti salti che portano il nome di un o una ginnasta, di cui ormai ci si dimentica provenienza e viso. Rimane solo il nome: Amanar, Preziosa, Yurchenko e così via.
Nella ginnastica artistica, dal 2006, funziona così: i punti che assegnano i giudici vengono “divisi” in due parti, in modo da valutare i diversi aspetti della prestazione.
D-Score: è dato dalle difficoltà degli elementi inseriti nel proprio esercizio e dai collegamenti tra essi, e in alcuni attrezzi anche dal valore dell’uscita. Le difficoltà vengono classificate in lettere, dalla A alla H.
E-Score: se nell’esercizio ci sono almeno 7 elementi, parte da 10 punti; va a scalare a seconda della qualità dell’esecuzione dell’esercizio.
Prima del 2006, con altri criteri di valutazione, era possibile ottenere il “10 perfetto” in gara. Il famoso 10 che Nadia Comăneci ha ottenuto per prima alle olimpiadi di Montréal nel 1976.

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Nadia Comăneci


In passato il suo personaggio non mi affascinava, i suoi esercizi mi sembravano quasi semplici in confronto al livello che negli anni è stato raggiunto da altre atlete ( le parallele di Olga Korbut per esempio); poi ho letto “La piccola comunista che non sorrideva mai” di Lola Lafon e ho capito quanto in realtà sia criptica, indecifrabile. Una vera e propria Malinche. Cresciuta nella dittatura di Ceaușescu, ne diventa il simbolo di massimo lustro, dopodiché fugge e chiede asilo politico in Ungheria per poi stabilirsi negli Stati Uniti ma continuando a criticare e condannare molti aspetti del capitalismo. E soprattutto ho capito quale influenza abbia avuto nelle nostre vite: avete presente il dialogo del film “Il diavolo veste prada”, in cui Meryl Streep spiega ad Anna Hathaway perché lei indossa quel maglioncino infeltrito ceruleo? Ecco, Nadia ha fatto lo stesso con la ginnastica artistica: all’improvviso ho capito perché a 6 anni me ne stavo a testa in giù, infilata in un body rosso con i bordi bianchi e perché avevo i nastrini bianchi e rossi nei capelli durante le gare. Ero una piccola copia di Nadia Comăneci. Lei ha plasmato una nuova generazione di ginnaste: prima di lei erano donne adulte, formate, dopo di lei eravamo tante bimbe che si arrampicavano sulle parallele, si buttavano dal quadro svedese e a stento arrivavano a toccare la trave alta. Una rivoluzione che porta la firma dei suoi allenatori, Béla e Màrta Károlyi, altri personaggi MOLTO controversi e che continuano a far parlare di sé anche per il loro operato negli Stati Uniti d’America. Fuggiti dalla Romania negli anni ’80, hanno esportato il loro metodo trasformando la nazionale americana nella più forte del mondo. E anche nella più infelice, mi viene da dire. Nei documentari “At the Heart of Gold Inside the USA Gymnastics Scandal” di HBO e “Athlete A” di Netflix viene raccontato molto bene il mondo degli abusi che c’è dietro alle ragazze sempre sorridenti che vediamo nella gare. E viene anche spiegato come questo sia facilitato dalla giovane età delle ginnaste: già da molto piccole sono sottoposte a fatiche e dolore e sono continuamente misurate e giudicate. Fanno quindi fatica a capire ciò che fa bene e che fa male. A una ragazza già adulta sarebbe difficile far sopportare delle fatiche a cui invece le bambine si piegano senza lamentarsi. Questo è il lato oscuro della ginnastica artistica. Ci sono però anche delle ginnaste audaci, che hanno dato dei segnali di ribellione. Una su tutte Vera Caslavska ( la mia preferita), cecoslovacca, alle Olimpiadi del 1968 era sul podio e ha abbassato lo sguardo quando è stato suonato l’inno dell’Unione Sovietica. Il suo gesto è arrivato nove giorni dopo il pugno alzato di Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri.

Lo sguardo negato - Storia di Vera Caslavska, che pagò per la vita ...
Vera Caslavska non guarda la bandiera dell’Unione Sovietica

E poi, Maggie Nichols, la protagonista del documentario Athlete A. Che per prima ha detto alla propria allenatrice di essere stata abusata da un medico della federazione. Che ha continuato ad allenarsi con dedizione avendo fiducia nella giustizia, e che non è stata inclusa nella squadra olimpica del 2016 nonostante stesse recuperando benissimo un infortunio al menisco e ne avesse assolutamente diritto. Entrambe hanno subito delle gravi conseguenze per il loro coraggio ed entrambe non si sono tirate indietro mai. Ma non sono le uniche: nella sua autobiografia per esempio Vanessa Ferrari, la più forte ginnasta italiana, ha denunciato delle pratiche di controllo del peso insane, e anche Katelyn Ohashi, americana e seguitissima sui social, ha manifestato problemi alimentari e dichiarando di esser stata costretta a gareggiare con delle fratture non ancora guarite. La cosa positiva è che però le ginnaste hanno iniziato a parlare, denunciare, ribellarsi e dettare regole. E spero possano cambiare il mondo della ginnastica e renderlo più umano.
GO GIRLS!

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Rumor

Qualche anno fa mio marito era in bici ed è andato contro un tir.
Per fortuna portava il casco e non è successo nulla di troppo grave.
Ma ha dovuto comunque passare la notte successiva in ospedale perché, avendo perso i sensi nell’impatto, i medici hanno preferito trattenerlo e monitorarlo.
Un paio d’anni dopo un conoscente gli ha riferito che aveva saputo che era stato tre giorni in coma.
Come hanno fatto pochi attimi di incoscienza a trasformarsi in 3 giorni di coma?
Facile, viviamo in un quartiere che chiamo “Peyton Place”.
Purtroppo è meno elegante di Peyton Place, ma, essendo un piccolo centro in cui intere famiglie si conoscono da molti anni, produce una grande quantità di pettegolezzi e “voci”.
Gli argomenti preferiti sono malattia e tradimenti.
“Voce” è il termine con cui viene letteralmente tradotto rumor (il quale però essendo un prestito lessicale rimane invariato anche in italiano), che significa “notizia che circola, che potrebbe essere vera, ma che è difficile da verificare e produce parecchio scetticismo e ansia, tanto da stimolare la ricerca della verità”.
“Rumor” quindi è un false friend ( come parents e actually per intenderci), e come tutti i falsi amici, può creare delle conseguenze anche gravi, soprattutto se parliamo di web, in cui una notizia raggiunge ogni angolo della terra in pochissimi attimi.
Per esempio nel 2013 è stato hackerato l’account di “The Associated Press” e pubblicato un post in cui si dichiarava che la Casa Bianca era stata bombardata, e Barack Obama gravemente ferito con delle significative conseguenze sul mercato azionario negli USA. Altri esempi di rumor li abbiamo avuti durante il lockdown, periodo in cui eravamo bombardati oltre che da dati, da informazioni su come prevenire/sconfiggere il virus ( questa vitamina C, dobbiamo assumerla o no?). A questo proposito, come non pensare al consiglio di Trump di iniettarsi il disinfettante per guarire dal COVID 19?
Il pericolo è dato dal fatto che spesso sono delle testate giornalistiche con una buona reputazione a diffondere rumor perché non hanno il tempo di verificare tutte le notizie, stressati dal dover continuamente condividere informazioni per mantenere alto l’interesse. Pare sempre più necessario quindi trovare il modo di stanare rumor e fake-news prima che possano causare panico o gravi conseguenze. Per questo sono nate alcune piattaforme online di fact-checking , che si occupano di verificare il grado di veridicità dei rumor. La mia preferita è POLITIFACT, che si occupa degli Stati Uniti.
Mi piace molto perché giudica una notizia non in un’ottica binaria (true/false), ma con più variabili (mostly true, half false etc..), e questo mi pare molto aderente alla realtà. Difficilmente troviamo una notizia falsa o vera al 100% ; spesso viene un po’ modificata, quasi romanzata.
Tutto ciò significa che la tecnologia può aiutarci nello stanare e smascherare se non addirittura prevenire fake news?
In un paper di Zubiaga et. al del 2016 viene studiato il comportamento degli utenti di Twitter di fronte a dei rumor prima e dopo che essi vengano smascherati o confermati. L’analisi viene fatta su diversi eventi di cronaca tra cui l’attentato di Charlie Hebdo del 2015 e le proteste dei cittadini di Fergurson del 2014 dopo l’omicidio di un ragazzo afroamericano per mano di un poliziotto. I risultati sono sorprendenti. Da quanto emerge, infatti, gli utenti tendono a sostenere e diffondere rumor non verificati e mostrano altissimo interesse ed emozione per quelli più recenti (l’attenzione scende molto dopo i primi 20 minuti di vita del source tweet) ma  non c’è lo stesso sforzo nel diffondere anche la smentita dei suddetti rumor.
Questo, che già ha dell’incredibile, non è il risultato che mi ha colpito di più. Ciò che mi ha davvero confuso è che si discute di più dopo che la veridicità di un rumor è risolta, quando quindi non ci sarebbe nulla di cui dibattere. In particolar modo aumentano i post a supporto dei rumor smentiti ufficialmente.
Il risultato più evidente dello studio è comunque il seguente: non sappiamo riconoscere una notizia vera da una falsa.
In alcuni casi non è facile, ovviamente.
Il web ci confonde, ci rende insicuri perché c’è tutta quella conoscenza accessibile, in un costante e frenetico cambiamento.
Io per esempio non so riconoscere una bugia se non in pochissimi e isolati casi. Concluderei comunque questo articolo come di consueto con una domanda facile: cosa ne dite di questo rumor apparso su Twitter il 22 marzo? Lo supportereste o neghereste?

E so cosa state pensando: non è un’imitazione di Corrado Guzzanti, giuro.
Oltre a non riconoscere le bugie, non ne dico.

Bibliografia:

  • Zubiaga, A., Liakata, M., Procter, R., Hoi, G.W.S. and P. Tolmie. 2016. “Analysing how people orient to and spread rumours in social media by looking at conversational threads”. pp. 1-29.
  • Grace Metalious, “I peccati di Peyton Place“, traduzione di Adriana Pellegrini, collana La Ginestra N. 14, Longanesi Editore, 1957.
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Netspeak

Il termine Netspeak significa “lingua della rete telematica”.
È una lingua a tutti gli effetti e a volte viene chiamata anche Netlish e Weblish o CMC ( computer-madiated communication).
Nonostante siano sinonimi, tutte queste parole hanno differenti implicature: Netlish contine al suo interno una parte di “english” e viene utilizzato sempre meno, mentre “net” è ormai un termine multilingue; CMC invece focalizza l’attenzione sullo strumento mediatico.
“Netspeak”, esattamente come “Royalspeak” deriva da “1984” di Orwell, dove l’autore descrive il “Newspeak”, un linguaggio artificiale di cui parlerò presto in un articolo sulle lingue inventate dei romanzi. Netspeak è a tutti gli effetti un prestito linguistico, non ci sono traduzioni in italiano altrettanto succinte e funzionali.
Descrivendo il netspeak, Davis and Brewer, due studiosi della lingua elettronica mettono in luce la sua peculiarità:

‘electronic discourse is writing that very often reads as if it were being spoken – that is, as if the sender were writing talking’

Ciò che infatti rende il netspeak così interessante, come forma di comunicazione, è il modo in cui si basa su caratteristiche che appartengono sia all’esposizione orale che alla scrittura.
Cosa però definisce il parlato e lo distingue dallo scritto?
” The Cambridge encylopedia of the English language” ci ricorda le principali differenze:

  • il linguaggio orale è transitorio (si, verba volant, scripta manent);
  • non prevede alcun intervallo di tempo tra la produzione del messaggio e la sua ricezione,
  • nella velocità e imprevedibilità degli scambi è difficile pianificare in anticipo il discorso,
  • la pressione che avvertiamo negli scambi ci induce a un maggiore utilizzo di ripetizioni, riformulazioni e intercalari,
  • i nostri interlocutori possono fare affidamento sui segnali extralinguistici e prosodici,
  • spesso sono presenti slang, parole nonsense e parolacce,
  • possiamo ripensare a ciò che abbiamo detto mentre il nostro interlocutore parla e riformulare le frasi; tuttavia quelle pronunciate non possono essere ritirate.

A un estremo del netspeak c’è il web, che in molte funzioni non è diverso dalle situazioni tradizionali che utilizzano la scrittura e subiscono poche modifiche stilistiche se non un adattamento al mezzo elettronico, come per esempio i testi giornalistici o letterari. Allo stesso tempo, alcune delle funzioni del web, si concentrano sul tipo di interazione più tipico del parlato, per esempio le e-mail, le chat-group e i social network.
Questi ultimi sono governati dal tempo, aspettano o richiedono una risposta immediata; sono transitori, i messaggi infatti possono essere immediatamente cancellati o perdere l’attenzione mentre scorrono fuori dallo schermo e mostrano l’urgenza e la forza energica che è caratteristica della conversazione faccia a faccia.
Questo solitamente avviene attraverso il dominio della prosodia e del paralinguaggio che si occupano “non di quello che dici ma di come lo dici” ovvero l’intonazione, l’intensità, la velocità e le pause.
Nel netspeak, ci sono stati sforzi un po’ disperati per sostituirle sotto forma di un uso esagerato dell’ortografia e della punteggiatura, e l’uso di maiuscole, spaziature e simboli speciali per l’enfasi.
Alcuni esempi sono le lettere ripetute (aaaaahhhhhhh, hiiiiiiiii, ooops,soooo) e l’uso delle maiuscole per “gridare”.
Nonostante queste innovazioni, gli utenti sono consapevoli dell’ambiguità sempre presente ed è per questo che sono nate la cosiddette faccine ;-), le emoticon.
Sono combinazioni di caratteri che mostrano un’espressione emotiva del viso: sono scritti in sequenza su un’unica riga e posizionati dopo il segno di punteggiatura finale della frase, quasi tutti letti lateralmente.
Possono prevenire un’idea sbagliata dell’intenzione di chi parla, ma la comunicazione il più delle volte rimane ambigua nonostante il loro utilizzo. Le emoticon e i malintesi mi fanno pensare a un film bellissimo di qualche anno fa di Miranda July, “You and me and everyone we know” in cui un bambino e una donna in carriera comunicano su una piattaforma web utilizzando delle emoticon creando non pochi malintesi.
Ormai usiamo poco le emoticon; nel nostro mondo sono arrivate loro, le emoji, create in Giappone ( non stupisce, visto la tradizione di ideogrammi) e poi diffuse dalla Apple.
Il nome deriva da 絵 e (immagine), 文 mo (scrittura) e 字 ji (carattere). Le emoji sono dei pittogrammi che completano o arricchiscono la scrittura e si possono utilizzare su tutte le piattaforme web.
Nel 2015 la parola dell’anno designata dall’Oxford English Dictionary è stata la “face with tears of joy”, che è l’emoji più utilizzata.
Le emoji aiutano così tanto il netspeak che sono stati fatti molti esperimenti di traduzione. Dalla traduzione dei testi di Drunk in love di Beyoncè al lyric video di Roar di Katy Perry fino a esperimenti ben più complessi: la traduzione del Moby Dick, diventato Emoji Dick. Un altro esperimento di traduzione è stato quello del designer Joe Hale che ha realizzato un poster con 25mila emoji per rappresentare Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll.
Anche in Italia ci sono degli studi molto interessanti di traduzione.
Sul sito “scritture brevi”, fondato dalla linguista e docente Francesca Chiusaroli si trova l’emojitalianobot e l’emojiworldbot, dei veri e propri dizionari interattivi.
Sempre lei, insieme a un team di docenti di traduttologia e ingegneria, ha curato la prima traduzione letteraria italiana, il “Pinocchio in emojitaliano“. Il progetto collettivo ha visto l’apporto di tutta la comunità di Twitter.
Ovviamente la traduzione si è occupata anche dell’elaborazione della struttura grammaticale e sintattica, sempre in emoji, che permettesse la decodifica dei segni rispetto al testo originale. 
La traduzione dei personaggi è un incanto: Pinocchio è rappresentato dal bambino che corre, mentre il grillo parlante dal cappello di laurea più la tromba e mastro ciliegia dal cappello di laurea più una ciliegia.
Il numero limitato delle emoji ovviamente stimola la creatività della traduzione e il valore aggiunto del progetto del Pinocchio in emojitaliano è il fatto che sia il frutto di un lavoro collettivo. Ovviamente noi siamo abituati a un altro tipo di traduzione, quella firmata da un solo autore. Il netspeak invece funziona al contrario, nonostante sia un linguaggio scritto è una creazione collettiva, si muove con le persone che scelgono, che consolidano prassi. Bellissimo.
Visto che però il web si è scatenato con indovinelli sulle emoji, non potevo non lasciarne uno (non barate). Che film è?

The Shining
Aiutino: “Wendy, tesoro, luce della mia vita”

Riferimenti bibliografici:

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Nero

néro1 agg. [lat. nĭger –gra -grum: v. negro]. – 
1. Nel linguaggio scient., è detto nero un corpo che assorbe integralmente la radiazione luminosa che lo investe (al contrario di un corpo bianco, il quale riemette la radiazione visibile che lo investe senza alterarne la composizione cromatica); il termine qualifica inoltre la sensazione visiva che tale corpo provoca. In partic., in fisica, corpo n., estensione del concetto di corpo nero dell’ottica visiva, e precisamente corpo che assorbe completamente tutte le radiazioni elettromagnetiche (quindi non soltanto luminose, ma anche radio, termiche, ultraviolette, X e gamma) che lo colpiscono ed è anche capace di emettere tutte queste radiazioni con un’intensità che dipende dalla frequenza della radiazione e dalla temperatura del corpo, ma non dalla natura di esso (emissione, o radiazionedi c. nero), secondo una relazione universale detta legge del c. nero.
  a. Può indicare semplicemente colore scuro, in contrapp. con chiaro o biancoocchiali n., con lenti affumicate per difendere dalla luce eccessiva (o quelli, con lenti molto scure, portati talora dai non vedenti); pane n., pane integrale; vino n. (in contrapp. a vino bianco), ottenuto con uve scure (dette anche uve nere), e, in usi region., sinon. di vino rossocaffè n., senza latte; cielo n., coperto di nuvole scure minacciose di pioggia; nuvole nsi addensavano all’orizzonte (anche fig., di situazione che si fa minacciosa); si vede venire avanti un tempo n., e s’aspetta la grandine (Manzoni). Di popolazione che ha la pelle scura (per l’alternanza di negro e nero in questa accezione, e nell’uso sostantivato con riferimento ai singoli individui, v. negro nel sign. 2); la razza n. (per estens., il continente n., l’Africa); analogam., essere n., diventare n., molto abbronzato dal sole. 
b. Talvolta, nell’uso fam., con il sign. di sudicio, sporco: guarda che mani n.: corri a lavartele!aveva la faccia ncome uno spazzacaminocome mai è così nquest’acqua?
c. In senso proprio, l’uso del colore nero simboleggia l’infelicità, il dolore (e di qui alcuni degli usi fig. che seguono): mi torna a mente il costume di quei barbariche per ciascun giorno infelice della loro vitagittavano in un turcasso una pietruzza ne per ogni dì felice una bianca (Leopardi); e ancor oggi il nero è, in molti paesi, segno di lutto: mettere l’abito n.; chiesa addobbata con paramenti neri
2. fig. a. Doloroso, pieno d’angoscia e d’afflizioneCh’io chiuda questi dì sì neri e tristi (Bembo); Lucia tornava a dipinger co’ più vivi colori quella notte, la desolazione così n., e la liberazione così impreveduta (Manzoni); una giornata n., piena di avvenimenti non lieti o di contrarietà; vivere nella più nmiseria, in condizioni di estrema indigenza; vedere tutto n., essere pessimista. In altri casi indica malinconia, stizza, irritazione: essere d’umore n., irritato, di pessimo umore (la locuz. è originariamente connessa con le concezioni della medicina antica intorno ai quattro umori del corpo, per cui v. atrabile e malinconia), e con sign. simile anche essere nin volto, o assol. essere neroavere idee n., pensieri n.; Mena aveva spesso il cuore nmentre tesseva (Verga). 
b. Di persona che ha la coscienza macchiata da gravi colpe: è un’anima n.; anche dei dannati all’inferno e dell’inferno stesso: ei son tra l’anime più nere; Diverse colpe giù li grava al fondo (Dante); e angeli neri, neri cherubini, sono detti da Dante (Inf. XXIII, 131; XXVII, 113) i diavoli; nell’uso com., non facciamo il diavolo più ndi quanto non sia, invito a non essere pessimisti più del necessario. Con sign. affine, di comportamento moralmente riprovevole: dimostrare la più ningratitudine
3. Con riferimento al colore nero assunto (o attribuito), in varie epoche storiche, a insegna e simbolo di partiti, tendenze o correnti politiche e ideologiche: 
a. Clericale, di idee o simpatie clericalil’aristocrazia n., la nobiltà n., legata agli ambienti ecclesiastici, soprattutto a Roma dopo il 1870. Per estens., il termine (che inizialmente alludeva al colore nero dell’abito dei preti) passò anche a significare atteggiamenti e comportamenti reazionarî, conservatori, avversi alle riforme o alle innovazioni: s’è imparentato con una famiglia cattolica ntra le più nere (Pirandello). 
b. Appartenente o relativo a organizzazioni fasciste (in quanto caratterizzate dall’adozione della camicia nera): le brigate n.; fiamme n., distintivo della milizia volontaria fascista (ma, prima, degli arditi); o anche neofasciste: terrorismo n.; trame nerec. Come termine storico, riferito alle fazioni comunali in Firenze e in altre città (v. nero2, n. 5 a): i sostenitori di parte nera
4. Locuz. particolari, con varî sign.: bestia n., di cosa o persona odiata o temuta (v. bestia, n. 4); borsa n. o mercato n., vendita fatta di nascosto, clandestinamente (v. mercato, n. 2 c); analogam., toto n., nel linguaggio giornalistico, gioco del totocalcio clandestino; buchi n., in astrofisica, v. buco2, n. 6; cronaca n., relativa a fatti delittuosi, suicidî, e sim.; fondi n., v. fondo3, n. 2 alavoro n., v. lavoro, n. 1 dlista n., v. lista, n. 2 hlibro n., registro o sim. in cui sono segnati i nomi di persone ritenute pericolose o ostili (anche fig.: l’ha segnato sul libro n., lo considera nemico); magia n., v. magia; mano n., v. manonera; messa n., v. messa1, n. 3; oro n., nome con cui si indica talvolta il petrolio (meno spesso il caucciù), per il suo alto valore commerciale; pecora n., v. pecora; pozzo n., vasca interrata, detta anche bottino, per la raccolta delle acque di rifiuto. In apicoltura, mal n. (o mal della foresta), malattia dell’ape adulta (dovuta forse a particolare alimentazione) che compare in primavera e si manifesta con depilamento del torace e dell’addome che assumono di conseguenza un color bruno lucente. 
5. In numismatica, era detta anticam. nera la moneta d’argento erosa o comunque contenente minor quantità di fino del previsto. 

“Nero” non è una parola dell’altro mondo, eppure lo è.

La lingua è un grande strumento di potere

Riferimenti:

  • Vocabolario Treccani
  • Spike Lee, Malcom X (1992)
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Tsuki

In giapponese il termine “luna” viene rappresentato graficamente da questo ideogramma: e si legge tsuki o zuki.
Gli ideogrammi giapponesi spesso rimandano alla forma degli oggetti che descrivono, per esempio questa 口 è kuchi “bocca”, e questo 木 è “albero”, moku .
Oltre a utilizzare tre diversi tipi di grafemi (hiragana, katakana e kanji), il giapponese è anche una lingua agglutinante, le cui parole cioè hanno una struttura complessa e sono formate dalla giustapposizione di più morfemi, che danno luogo a una catena che può essere più o meno lunga. Facciamo un esempio: prendiamo il sostantivo “traduzione”.
In giapponese si dice “hon’yaku”, e si scrive con i seguenti ideogrammi: 翻訳. Se però volessimo dire “libro tradotto”, avremmo l’ideogramma radice di “traduzione” 訳 “yaku”, a cui aggiungere quello di libro 本, che si pronuncia “hon”. Quindi libro tradotto si scriverà 訳 本 e si leggerà “yaku’hon”. Con lo stesso metodo avremo “testo tradotto” 訳文 “yaku’bun”, “traduzione in giapponese” 日本語 訳 “nihongo’yaku”(lingua giapponese+ traduzione), e così via.
Per aiutarmi li ho sempre immaginati come mattoncini della Lego.
Tornando a “tsuki”, è un radicale utilizzato in molte parole diverse. Quando però è accompagnato da altri ideogrammi si pronuncia “getsu”.
Assume inoltre, diversi significati come “mese” e “ciclo mestruale” oltre a quello di luna.
Lo troviamo anche nella parola “lunedì”, 月曜日(getsu’yobi): 月 (getsu, luna) + 曜日 (ようび, yōbi, giorno).
Lunedì quindi in giapponese è legato a lei, la luna, esattamente come nella maggior parte delle lingue romanze (di cui fa parte l’italiano), delle germaniche (tra cui l’inglese) delle indoarie e delle artificiali.
Potrebbero esserci due spiegazioni:

  1. durante l’epoca Meiji è stato introdotto il calendario gregoriano e quindi anche i giorni della settimana (ma poi dovremmo capire perché lo stesso non vale per tutti gli altri giorni della settimana);
  2. deriva dal cinese antico in cui lunedì era scritto con lo stesso ideogramma “月曜日” e quindi dedicato alla luna. Questa ipotesi mi pare la più plausibile.

Vi ho riempito di queste informazioni per arrivare a una domanda che mi lampeggia in testa da quando, ormai un po’ di anni fa, ho iniziato a studiare il giapponese: come mai lingue così diverse e lontane tra loro hanno scelto la luna per indicare il primo giorno della settimana? Era la cosa più semplice? La più naturale? Una coincidenza?
Un’altra cosa che mi ha sempre affascinato del nostro rapporto con la luna è ciò che ci vediamo quando è piena.
Negli Stati Uniti e anche in Italia vediamo un viso di donna(solitamente triste).
I giapponesi invece vedono un coniglio che sta preparando un “mochi” picchiandolo con un bastoncino di legno. I mochi sono dei dolcetti di riso. Questa immagine (che vi assicuro è ben visibile sulla faccia della luna piena, cercatela!) è legata a una leggenda.
Essa narra che il “Vecchio Signore della Luna” un giorno scese sulla Terra per mettere alla prova la gentilezza di tre animali (una scimmia, un coniglio e una volpe). Trasformatosi in mendicante, il Vecchio della Luna voleva sapere chi fosse il più gentile tra i tre.
Gli si avvicinò, mentre erano seduti intorno al fuoco, e chiese se avevano del cibo da offrire.
La scimmia raccolse un’abbondanza di frutta per il mendicante, la volpe gli portò un pesce, ma il coniglio non aveva nulla da dare e offrì se stesso in sacrificio gettandosi nel fuoco e permettendo al mendicante di mangiarlo. Prima che il coniglio potesse farlo, però, il Vecchio della Luna si ritrasformò nella sua forma originale. Disse al coniglio che aveva un animo molto gentile e lo portò a vivere sulla luna con sé.

Questa storia, tramandata di generazione in generazione, contribuisce alla vecchia credenza giapponese secondo cui i conigli vengono dalla luna. Esiste anche un festival, chiamato anche “otsukimi”, che è uno dei più celebrati in Giappone fin dall’era Heian.
Lo otsukimi si tiene nella seconda settimana di agosto seguendo il calendario lunisolare. Durante questo periodo i giapponesi visitano i santuari, offrono preghiere, bruciano l’incenso, offrono gli “Tsukimi dangos” (gnocchi di torta di riso) al dio della luna in segno di gratitudine per il raccolto autunnale e decorano i tetti con l’erba della Pampa, che è anch’essa usata come offerta al dio. Il Giappone è pieno di questo genere di festival legati alla natura, mentre in Italia la maggior parte delle celebrazioni sono legate al cattolicesimo. Ci potrebbero quindi sembrare solo folkloristiche, ma sono molto sentite e piene di spiritualità.
Se siete arrivati a leggere fino qui però, stasera fatevi un regalo: guardate in su e cercate il coniglio nella luna.

Bibliografia

  • G.Berruto, M. Cerruto, La Linguistica, UTET 2015
  • Kodansha’s furigana Japanese Dictionary
  • https://decanta.com/rabbits-moon-japan-celebrates-autumn