
Sono partita per la Biennale d’arte di Venezia Il latte dei sogni con un’idea ben precisa: avrei analizzato una nuova parola, latte, e l’avrei legata alla Via Lattea e al mito greco sulla sua origine, ovvero le gocce fuoriuscite dal seno di Era, mentre allattava Eracle.
Latte è un sostantivo maschile la cui etimologia si ricollega alla radice “glu, gla, gal, gar” che indica onomatopeicamente il deglutire del neonato durante l’allattamento. Significa “liquido denso, bianco opaco, prodotto di secrezione delle ghiandole mammarie, alimento completo e indispensabile della prole dei mammiferi nel primo periodo di vita”.
Ma poi: latte è una parola femmina?
Questa domanda, tutta sbagliata, mi rimbalzava in testa mentre camminavo tra i padiglioni e i giardini.
Il titolo di questa edizione richiama il libro di favole di Leonora Carrington, in cui l’artista surrealista “descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé”. Leonora Carrington è stata un’artista magica. Anzi, una donna magica che ha avuto una vita talmente surreale e intensa che mi chiedo come sia possibile che Buz Luhrmann non ci abbia ancora fatto un film.
Cecilia Alemani invece è la direttrice della mostra.
Scrive nella presentazione che:
“L’esposizione Il latte dei sogni sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme ad altre figure delle trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso la metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano”.
Uno degli interrogativi che infatti la mostra affronta è: come sta cambiando la definizione di umano?
L’esposizione di quest’anno è incredibile, non solo i padiglioni dei diversi paesi, ma anche le opere esposte all’Arsenale dove si attraversa un susseguirsi di opere di avanguardia surrealista incantevoli.
Una mostra femmina, altra frase sbagliata che mi rimbombava dentro. Ma non a torto. In questa esposizione gli artisti uomini sono in minoranza e c’è una maggioranza di artiste donne e soggetti non binari.
E poi
Ho visto “Hamlet” di Antonio Latella al Piccolo Teatro di Milano.
In una maratona di 6 ore viene messo in scena tutto il testo della tragedia di Shakespeare.
Tutto in italiano tranne due parole: farewell, ripetuto quasi ossessivamente, e Hamlet.
La scelta di lasciare il nome di Hamlet senza tradurlo e quindi decidendo di non declinarlo al maschile o al femminile, mi è parsa giusta e accurata.
Non ce ne frega niente del genere di Hamlet; ho guardato e ascoltato l’attrice Federica Rosellini, e, per tutta l’opera non ho mai pensato che fosse una donna.
Nel teatro è facile, lo so, storicamente i personaggi sono stati interpretati da attori di diversi generi e ciò non importa perché ciò che interessa è il tema che ci raccontano, che affrontano nel loro sviluppo.
“Quale potrebbe essere il tema di Hamlet? La vendetta? L’esitazione? La follia?” A questo ho pensato.
Il nome Hamlet mi sembra giusto perché non è femminile, non è maschile e neanche neutro.
D’altronde, come spiega in maniera cristallina Vera Gheno, anche il genere neutro (presente in alcune lingue) è una trappola in termini di inclusività perché indica qualcosa che è diverso, altro dal maschile e il femminile. Una soluzione esclusiva.
E allora ho capito perché, nonostante mi informi, legga saggi, e mi continui porre domande sull’utilizzo del linguaggio non mi sento mai pronta a rivendicare con forza l’utilizzo del femminile in italiano (per esempio nelle professioni).
So bene che per la formazione dei termini femminili vanno seguite alcune regole grammaticali esistenti, per esempio:
le parole che terminano in -o diventano -a: sindaca, ministra;
le parole che terminano in -aio, -ario diventano -aia, -aria: notaia, primaria;
le parole che terminano in -iere diventano -iera: infermiera, consigliera;
le parole che terminano in -sore diventano -sora: revisora, assessora;
le parole che terminano in -tore diventano -trice: direttrice, redattrice.
e che non usarle e preferire il maschile è di fatto un errore.
Inoltre, mi farebbe sorridere descrivermi come “un coordinatore” e non “una coordinatrice”.
So anche che le lingue non sono imposte dall’alto, ma si mischiano, cambiano con noi, finché sono vive.
Ma nella lotta che contrappone il femminile al maschile non mi sento protetta, coinvolta.
Non so se sia una ribellione intima a ciò che la società mi ha insegnato rispetto all’essere donna, ma sempre più spesso mi chiedo: ma io sono quella donna? Cosa significa essere donna? Avere una vagina? Il seno? Il ciclo mestruale? Procreare? La maternità? Essere meno forte dell’uomo fisicamente? Più sensibile? E se non avessi queste caratteristiche cosa sarei? Un uomo? Un neutro?
Come sta cambiando la mia definizione di umano?
Il binarismo non fa per me.
“Binario”, aggettivo, dal latino binarius, derivato di bini «due per volta», significa “composto di due unità, di due elementi”.
Ma il genere umano non è binario. Ed è bello così.
Moltissime persone non appartengono a queste due categorie inventate per sembrare quelle più vincenti.
E poi
Giorgia Meloni ha detto che non le serve essere chiamata “capatrena” per sentirsi riconosciuta professionalmente. E allora ho capito che non potevo parlare della Via Lattea, ma che dovevo fare una cosa che non vorrei fare perché non mi sento mai abbastanza preparata o intelligente: parlare del gender nella lingua.
E lo vorrei fare, se fossi su un palco a teatro e fossi brava come Federica Rosellini, nei panni di un* Giorgia Meloni/Hamlet, che si finge matt* e nel suo discorso alla Camera dice:
“Non mi interessa essere chiamata “capatrena” perché l’uguaglianza non può essere binaria. L’uguaglianza passa anche attraverso il linguaggio, e forse, per cercarla e fondarla potremmo partire da lì. Troviamo un modo per includere tutt*, troviamolo nel linguaggio”
oppure
“io le chiamo Cristina, Nilde, Oriana, perché vorrò pronunciare anche il cognome quando le persone avranno cognomi che provengono da entrambi i genitori e non siano solo frutto del patriarcato”
oppure
“essere Premier significa rappresentare tutt*. Comincio io.”
Latte è una parola non binaria.